
“La porta è fatta di tubi saldati. Le reti, rattoppate con fili elettrici. Ma quando l’arbitro fischia, qui dentro ci si dimentica anche del filo spinato.”
Nel cortile interno del carcere di Rebibbia, ogni giovedì pomeriggio, si gioca una partita di calcio. Il campo è stretto, il fondo sconnesso, le linee tracciate a mano con il gesso. Ma per chi indossa la maglia, in quei 90 minuti non esistono celle, chiavi o sentenze. Esiste solo il pallone. E la possibilità, anche se effimera, di sentirsi liberi.
Il calcio in carcere: una realtà viva
In Italia, il calcio entra regolarmente nelle carceri. Non come evasione, ma come strumento educativo e di reinserimento. Da nord a sud, sono decine gli istituti penitenziari che ospitano squadre interne, tornei intercarcerari o partite amichevoli con squadre esterne.
A Rebibbia, ad esempio, c’è una vera squadra composta da detenuti, allenata da un educatore penitenziario, che gioca partite ufficiali contro squadre dilettantistiche che entrano settimanalmente nell’istituto.
“Per noi è molto più di un gioco. È disciplina, è rispetto, è lavoro di squadra”, racconta Antonio (nome di fantasia), 34 anni, condannato per rapina, oggi centrocampista della squadra interna. “Qui impari a controllare la rabbia, a collaborare. Il campo è l’unico posto dove non ci sentiamo detenuti.”
I numeri del progetto
Secondo i dati forniti dalla FIGC e dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nel 2024:
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Oltre 30 istituti penitenziari italiani partecipano a progetti sportivi ufficiali legati al calcio.
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Circa 1.200 detenuti prendono parte ogni anno a partite organizzate all’interno degli istituti.
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Più di 200 educatori, tecnici e volontari collaborano ai programmi.
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Sono stati rilasciati oltre 40 patentini UEFA C a detenuti che hanno superato i corsi da allenatore.
Il progetto più strutturato si chiama “Liberi di Sognare”, promosso da FIGC, Ministero della Giustizia e AIAC (Associazione Italiana Allenatori Calcio). L’obiettivo è duplice: portare il calcio in carcere e formare figure professionali capaci di lavorare con i giovani una volta scontata la pena.
Le partite contro “l’esterno”
In alcuni istituti – Rebibbia, Secondigliano, Bollate – le squadre dei detenuti affrontano avversari “esterni”: formazioni amatoriali, universitarie o di parrocchie. Spesso sono partite vere, arbitrate da direttori di gara federali, con tanto di punteggio, falli e cartellini.
“Entrare a giocare contro una squadra di detenuti cambia la prospettiva”, racconta Marco, difensore di una squadra dilettante romana. “Ti rendi conto che dall’altra parte ci sono persone che, pur avendo sbagliato, cercano una via d’uscita attraverso il pallone.”
Il calcio come riscatto
Le storie di riscatto sono tante. Alcuni detenuti, usciti di prigione, hanno trovato lavoro come allenatori nei settori giovanili. Altri si sono messi a disposizione di comunità e parrocchie per aiutare i ragazzi a non finire sulla stessa strada.
In Campania, un ex detenuto formato nel carcere di Poggioreale allena oggi una squadra di allievi in un quartiere a rischio. A San Vittore, un ragazzo con precedenti per droga ha aperto una scuola calcio popolare nel suo quartiere dopo aver scontato la pena e ottenuto il patentino UEFA.
Conclusione: libertà in un pallone
In un ambiente dove tutto è rigidamente controllato – orari, movimenti, parole – il calcio diventa uno degli ultimi spazi di libertà. Sul campo, ogni detenuto può correre, scegliere, sbagliare, migliorare. Proprio come nella vita.
Il pallone rotola anche dietro le sbarre. E lo fa con passione, rabbia, speranza. Perché non è solo un gioco: è una possibilità.
Una porta che si apre.
Un riscatto che comincia da un passaggio riuscito.
Un gol che vale molto più di tre punti.
E forse, alla fine, è proprio questo che rende il calcio tanto universale: la sua capacità di dare dignità, anche dove sembra persa. Anche dove nessuno guarda.
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